mercoledì 27 maggio 2015

IL DIAVOLO SI NASCONDE NEL SECONDO ATTO


Il secondo atto è sempre il più ostico. A volte noioso da scrivere, non vedi l’ora che finisca. Nel primo piazzi tutte le pedine, nel terzo fai esplodere la bomba. E nel secondo?

Quando pensi ad un racconto l’inizio ce l’hai, è ciò che t’ha suggestionato, l’idea che t’è venuta. E se il tizio si ritrovasse nella tale situazione? Cosa succederebbe al tal’altro se gli capitasse un evento del genere? Basta un episodio clamoroso che ci è successo, e già s’intravede una storia. Quante volte vi sarà capitato di sentir dire da un amico o da chi comunque sapeva che facevate lo scrittore: eh, se sapessi, sulla mia vita ci potresti scrivere un romanzo! Oppure, più minimalista, e forse realista: lo sai che m’è capitata una cosa: da scriverci un film!

E questo ce l’avete.

Poi, in una sorta di sfida mentale con voi stessi, vi proiettate davanti agli occhi il possibile finale: beh, se a tizio capitasse questa tal cosa, sarebbe bello che finisse così.

E c’avete anche il finale.

E in mezzo che ci scrivo? Perché un romanzo non può essere di una cinquantina di pagine (calcolando una media di 200/250 pagine), né un film può durare mezz’ora (a meno che non sia un corto o mediometraggio, ma lì il discorso è diverso).

Quindi nel mezzo ci metto…

Nel mezzo ci va la cosa più complicata da intercettare. La resistenza del protagonista.

Ma resistenza a cosa?

Una breve digressione: se penso a un uomo o a una donna che mettiamo vogliano diventare astronauta, è naturale immaginare in questo percorso una serie di difficoltà che infine lo porteranno o la porteranno a realizzare quel sogno. Si immagina un’ascesa, dalle stalle alle stelle (proprio il caso di dirlo). È un’ascesa, lui che salta ostacolo dopo ostacolo fino alla vetta. Si tratterebbe dunque di trovare una serie di impedimenti per rafforzare la determinazione del protagonista, fino all’apogeo del finale, magari dentro l’astronave. La digressione, meno breve del previsto, per dire questo: ma i suoi problemi sono puramente esterni? Tipo la mamma che ha paura che si perda nello spazio, o la fidanzata che teme che s’innamori della collega di bordo, o il corso per astronauta degno per difficoltà di un Pitagora e di un Icaro messi insieme? Anche questo, ma…

… e qui torniamo in diretta, la parte essenziale è scoprire cosa, nel secondo atto, impedisce al protagonista di essere ciò che vorrebbe essere. E questo ha solo in parte a che fare con gli impedimenti esterni, detti ‘di plot’. Il vero ostacolo, l’altra parte, è lui stesso. Sa di potercela fare, è ambizioso o innamorato abbastanza. Com’è che allora non lo mettono subito a bordo di un’astronave o a dichiarare amore eterno alla bella un attimo dopo aver perso la testa per lei?

Troppo facile, inverosimile. Si deve prima ‘scornare’. Con sé stesso. Coi suoi limiti. Quelli che da anni e anni lo costringono a sognare di diventare astronauta e a non riuscirci. A sognare un amore travolgente e a non ‘poterselo permettere’. Perché?

La cosa più ardua da accettare è che ciascuno di noi, a un certo punto della vita, s’accorge di aver immaginato una vita che alla realtà pare non corrispondere affatto. Quell’idea ce l’ha e ora, giunto a un certo punto dell’esistenza, dopo varie esperienze, ce l’ha persino più chiara. Ma allora perché non si realizza?

Qualcuno, a tal proposito, ha detto che non è difficile immaginare la vita che vorremmo, il difficile è mollare quella che abbiamo. Una vita di abitudini, di cose costruite, spesso edificanti, remunerative magari, di immagini che ci rappresentano, di consuetudini ormai divenute noi.

Ecco, nel secondo atto si racconta questo: le consuetudini che tengono a terra il protagonista impedendogli di volare. Qui le specifiche psicologiche legate al suo carattere s’impongono a spiegazione, ma non è di questo che intendiamo parlare.

Naturalmente ogni protagonista avrà limiti caratteriali che gli freneranno la corsa, ma il punto qui è segnalare questa ‘lacuna’ nel suo senso generale.

Ostacoli come minaccia di perdita.

La perdita di una stabilità precaria ma funzionante. Una minaccia alla propria stabilità. Come dire che nel secondo atto il protagonista si àncora al proprio “peggio”. Lo tiene stretto, lo difende, lo protegge. La vita che sognava lo blandisce, gli ammicca, lo lusinga e lui… niente, le resiste.

Incredibile ma vero.

Il detto che siamo il peggior nemico di noi stessi, gran parte delle volte corrisponde a sacrosanta verità. E accorgersi che abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti del nostro “peggio” (inteso come costrizioni sociali, morali o psicologiche), che ci ricatta e ci tiene stretti a lui, in un tepore che è sempre meglio del gelo che temiamo, è davvero sorprendente.

Sorprendente il considerare vita ciò che in realtà non lo è (e dentro di noi lo sappiamo benissimo!)

Il protagonista, come noi a volte, nel secondo atto si dibatte, si inalbera, lancia strali, pietisce, fa di tutto per non staccarsi dal giogo che gli piega la testa. Ci argomenta sopra, lo trova plausibile, inevitabile, fatale, persino umano… e come dargli torto: deve ancora incontrare il terzo atto!

Quindi il secondo atto è sostanzialmente questo: l’apologia del ‘vorrei ma non posso’ del protagonista. Un ‘non posso’ che s’eleva a valore, a identità. Tutto ciò che lo ha costituito fino ad allora trama dentro di lui perché lui non ne esca. Ciò è forte e resistente, anche perché gran parte delle volte impercettibile alla vista.

Una vecchia abitudine, una ‘normale’ vecchia abitudine. Un semplice gesto ripetuto per anni, ormai invisibile agli occhi, che finisce per esser considerato addirittura  espressione del nostro carattere, attraverso il quale mutuiamo dal prossimo ciò che altrimenti, senza quel gesto, mai ci verrebbe riconosciuto. Una considerazione, un apprezzamento, un sorriso. Lo sappiamo, ma quell'abitudine la ripetiamo senza farci troppe domande, per una vita magari. Se serve…

Il diavolo si nasconde nei dettagli.


sabato 21 marzo 2015

SI RIPARTE DALLA FARFALLA



Grandissimo Robin in PATCH ADAMS scritto da STEVE OEDEKERK su soggetto del vero Patch Adams, ideatore della terapia olistica. Questa è la scena dopo il Punto di Morte, alla fine del secondo atto. È la ripartenza che conduce al climax. Ispirata da una farfalla che è diventata la 'nostra farfalla'. L'elemento emotivo che richiama il protagonista alla vita, alla reazione, al 'farcela adesso' finale. La bellezza del momento in cui si ha la piena visione di noi stessi, sentendoci nel profondo, artefici non più spettatori. L'attimo in cui la Vita sopraffà la Morte, e noi siamo certi che sia successo, e che possa succedere. Un attimo, un istante in cui sentiamo di farcela con noi stessi. Dopodiché c'è il Climax, dove la nuova energia si rappresenta. Ed è la vita. Quella che abbiamo sempre sognato.

giovedì 12 febbraio 2015

A PROPOSITO DI STRUTTURA...


Durante alcune lezioni online, nel focalizzare il ‘sottotesto’ del racconto di uno sceneggiatore o di uno scrittore, è capitato di discutere di struttura narrativa, ‘scocca’ sulla quale montare gli elementi narrativi. Chiacchiere da cui sono emerse ‘immagini’ che desideravo offrire ai lettori del blog come spunto di riflessione.

Quante volte è capitato di voler esprimere una semplice cosa, di aver percepito la stringente necessità di esprimerla, il sacrosanto diritto ad esprimerla, e alla fine di aver detto: ‘io? No, grazie, va benissimo così.’ Oppure di essere arrossiti nel sussulto di quella necessità, o persino di essersi arrabbiati con colui che ci sollecitava a esprimerla; addirittura arrabbiati con noi stessi per aver provato il bisogno di esprimerla, diritto che, “infame destino”, non ci spetta. In un batter d’occhio, il bianco si è trasformato in nero. Naturalmente anche nella capacità di sapersi adattare, di saper accettare ciò che non riusciamo a modificare, a patto che quest’‘adattamento’ non diventi una virtù.

Ciò che ha subìto una trasformazione, è la nostra profonda emozione che nella risalita ha incontrato ostacoli educativi, sociali, morali che ne hanno assorbito la luce fino a farla uscire dalla nostra bocca con parole che persino possono aver negato quell’esigenza. Capita.
Penso alla mia infanzia, a cosa ero quando ero un ragazzino. Da cosa ero mosso, cosa sognavo. Le fantasie e gli entusiasmi. Quanto sono riuscito a realizzare, quanto in quella risalita è andato perduto. E perché. Penso anche se dalla faccetta magra e curiosa che avevo si fosse potuto intuire ciò che sarebbe stato, qualcosa del carattere che avrei formato. Forse sì, e comunque si scopre dopo. Cosa c’era allora che adesso non c’è più o si è trasformato nel suo reliquiario? Cos’ha prodotto questa trasformazione negli anni?
Quanto ci sfugge della conoscenza di noi stessi. E quanto a volte l’idea di saperlo e di non poterci fare niente ci fa stare male.
Possiamo provare a pensare alla giornata di ieri. Cosa ricordiamo? Niente di significativo? Ahimè… Forse la solita routine? Niente che ci abbia spaccato il cuore di gioia? Niente che ci abbia fatto piangere fiumi di disperazione?
Ecco cosa molto probabilmente è successo ieri da quando ci siamo svegliati a quando siamo andati a letto: alzati energici, volonterosi, comunque pronti a dare battaglia, e dopo ore di traffico e duro lavoro, relazioni complicate, e conflitti, e chiarimenti, ci siamo spiattellati sul divano davanti a un talk show. A sognare guardando  ‘chi ce l’ha fatta’. Oggi è stato diverso? Non è un bel racconto, questo? Non se ne potrebbe ricavare una bella storia?
La nostra energia vitale si è trasformata in spossatezza e apatia. Eppure… eppure il desiderio di qualcosa di diverso, di sublime, rimane, dentro. La speranza. La fatale, fedele speranza.

Ecco, questa è la struttura narrativa. Un’emozione che durante il percorso di risalita si trasforma in altro a causa di ostacoli psicologi, morali o sociali.
Nel racconto partiamo dalla fine per far tornare il protagonista all’inizio. Partiamo dalla sua destinazione sbagliata e andiamo verso il punto da cui è partito, alle sue migliori intenzioni. Da una luce spenta, a una sorgente di luce. Un viaggio a ritroso, se consideriamo che ciò che avviene in una narrazione è qualcosa che procede in avanti, verso la fine, verso il climax. Prima del climax c’è il punto di morte, l’intima, angosciosa sensazione – noi seduti sul divano - che l’indomani le cose potrebbero non andare diversamente. Domani è un altro giorno…

Tutti i racconti sono sostanzialmente uguali nel raccontare di una difficoltà che tende alla propria soluzione, fino cioè a quel divano (il nostro punto di morte alla fine del secondo atto). Nel terzo atto, rimotivazione e climax, c’è il messaggio di chi scrive, la volontà di provocare sostenendo la tesi che non vi siano alternative al divano, mettendo così il lettore o lo spettatore davanti a uno specchio, oppure suggerire che ‘reagendo al divano’ tutto può rinascere a nuova vita, il tanto vituperato lieto fine. “… E quindi uscimmo a riveder le stelle…’

Nel momento stesso in cui riusciamo ad esprimerci in maniera qualificata, anche soltanto per dire quello che pensiamo alla persona che ce lo ha sempre impedito (o che abbiamo immaginato ce lo impedisse), sappiamo che la nostra vita può essere diversa. Una sensazione di forza che ci rimette al centro del mondo e di noi stessi. Un racconto che può durare il tempo di una breve emozione. Un’emozione che può durare una vita. Capire come una paura la blocca nella sua risalita, attiene alla struttura narrativa.

Dal divano ci siamo alzati gonfiando il petto e abbiamo affrontato il mondo senza aspettative risarcitorie. Evviva! È il lieto fine.
Continui ostacoli a cui sottoponiamo il nostro protagonista, e spesso noi stessi, impediscono di dire o di fare quello che vorremmo, ci tolgono forza e energie, ci ‘spengono’. Una cultura sociale che ci ha mortificato, ‘leggi divine’ che hanno umiliato e inibito i nostri aneliti, familiari troppo presi a lottare contro i propri fallimenti emotivi per riuscire a dare forza ed evidenza alle aspettative filiali.

Da questo punto di vista, lo scopo di chi scrive non è diverso, raggiungere attraverso i suoi personaggi quella ‘luce’. Un “lavoro” dal quale egli vuole uscire con una risposta qualificata. Il fulmine che il protagonista temeva lo colpisse scopre che non esiste, e di colpo si accorge che fuori è una splendida giornata di sole. E chi scrive allora chiude gli occhi per quei raggi abbaglianti.

sabato 8 novembre 2014

"Adoro il senso di colpa."


(ricevo da un lettore del blog a integrazione all’ultimo post e volentieri pubblico)

“A me piace molto il mio senso di colpa, mi ci trovo bene, anche perché lo conosco da molto tempo. La cosa che mi piace del mio senso di colpa è che lui conosce bene me e io conosco bene lui, quindi alla fine riusciamo sempre a trovare compromessi. La cosa più bella del senso di colpa e che lui non mi costringe ad essere qualcosa di diverso, mi accetta così come sono, soprattutto in questi casi mi è molto accanto.
Il senso di colpa a me piace anche per un’altra cosa, per esempio mi aiuta molto con gli altri perché mi permette di dedicarmi completamente a loro, alle loro necessità e ai loro bisogni. Infatti io cerco di aiutare tutti perché il mio senso di colpa per fortuna me lo permette. Io ho un ottimo senso di colpa, e ringrazio Dio tutti i giorni per avermelo dato.
Che vita sarebbe senza il senso di colpa? Trovarsi da soli, senza i rapporti che conosco, senza persone a cui dimostrare di essere utili. Insomma, una vita d’Inferno. Non pensare che a sé stessi e al proprio benessere infischiandosene altamente del senso di colpa, non avrebbe senso. Solo se hai un buon senso di colpa sei amato dagli altri, tutti ti apprezzano e ti stimano e dicono di te ‘ma guarda che brava persona’. 
Certe volte il mio senso di colpa mi permette di aderire completamente alle necessità magari di una persona cara, che sono quelle che più beneficiano del mio senso di colpa, grati e riconoscenti come si dimostrano. Loro non vorrebbero mai che cambiassi, e questo per me è un vero segno di amore. Perché adorano come me il mio senso di colpa, mi vogliono bene per questo, e io sono felice di questo loro amore. Meglio sopportare che prendersela con gli altri, dice il mio senso di colpa.
Pensare a sé stessi, alle proprie emozioni, ai propri hobbys magari, ed essere felici guardando un tramonto senza l’opportunità di pensare che quel sole non è soltanto tuo ma di tutti: non sarebbe egoistico?
Perciò, grazie a Dio, io il senso di colpa ce l’ho e me lo tengo stretto. E a chi mi dice che sbaglio, che la dovrei pensare diversamente, io rispondo: pensare a cosa?"

giovedì 6 novembre 2014

INDICAZIONI DI 'VIAGGIO' PER CHI SCRIVE


Una volta pensato il personaggio che si vuole raccontare, sarebbe opportuno concedersi un po’ di tempo per ragionarci sopra, magari una giornata, abbandonandosi a pure, per alcuni forse superflue, riflessioni.
Partiamo dall’idea che la scrittura di un copione o di un romanzo sia una destinazione che vogliamo raggiungere. Nulla di strano che prima ci s’informi su dove siano diretti. Una cartina geografica, qualche immagine su google, notizie da chi ci è già stato. Informazioni che non rappresentano in alcun modo l’emozione del viaggio ma che, a meno di non considerarsi avventurieri impenitenti, ci fanno pregustare il piacere della scoperta.

1) Consideriamo innanzitutto che ciascun personaggio a cui s’intende dar vita risponde ad un’unica necessità: ‘farcela’. Farcela a stare meglio, a realizzare ambizioni o sogni, a vivere in maniera soddisfacente e appagante, insomma, farcela ad essere felice. Quindi qualsiasi argomento trattato in un racconto, ambientato in questa o in quell’epoca, ha lo scopo finale di dare risposta al ‘non farcela’ iniziale del protagonista.

Esistono condizioni di partenza che limitano il protagonista dovute all’ambiente in cui vive, all’educazione che ha ricevuto, alla realtà culturale in cui si è sviluppato. Queste restrizioni psicologiche, educative o ambientali lo hanno forgiato rendendolo ciò che ora è, e da queste restrizioni deve liberarsi (le immagini di ‘Mission’ in cui Robert De Niro trascina dietro di sé il sacco – fardello di colpe - contenente le armi con cui fino a quel punto si è difeso, è emblematica).

Sostanzialmente cosa significa questo ‘farcela’ di cui parliamo? Qualche milione di anni fa per l’uomo primitivo il ‘farcela’ aveva un significato biologico nel bisogno di mangiare per riprodursi. Per mettere in atto questa stringente necessità, usava una clava con la quale sbrigava gran parte delle questioni con i suoi interlocutori. Poi un giorno, stanco o sprovvisto di un nodoso randello a portata di mano, decise di sostituire la pesante clava con un chiaro e sonoro ‘ma va’ al quel paese!’. Da quel giorno, più o meno, è nata la Cultura, definibile come ‘clavata argomentata’, rabbia e forza e determinazione espresse nel linguaggio verbale. Sviluppo di un linguaggio, evoluto nel corso del tempo, che ha conservato però le stesse finalità: arrivare a ottenere un vivere pieno e soddisfacente. Naturalmente oggi non si parla più di mammuth e di femmina in estro, piuttosto di realizzazione nel lavoro e di una compagna (o compagno) che ci completi.

Per l’individuo moderno, la parte principale della sopravvivenza è sempre rappresentata dal bisogno di esprimere le proprie emozioni, veicolo delle proprie necessità. Se questa capacità di espressione è bloccata o impedita da costrizioni psicologiche, ambientali o culturali, egli sviluppa un ‘problema’.

2) Bisogna perciò identificare innanzitutto la sfera di base a cui appartiene il problema del protagonista (nella vita reale un ‘problema’ è in genere il prodotto di un insieme di fattori, ma in un racconto bisogna necessariamente identificarne uno).

Dove si trova il problema del protagonista, ostacolo al suo ‘non-farcela’? Nella sfera affettiva?

Se si tratta di Storie d’Amore, metteremo in campo un personaggio che ha difficoltà a esprimere quelle emozioni congelate che all’inizio rappresentano il suo limite o fatal flaw. Per rappresentare quest’incapacità, non necessariamente si deve ricorrere a un orso che vive in totale solitudine. Un’ampia letteratura ci indica in dongiovanni e dark ladys un’uguale impossibilità. Il ‘realismo carnale’ di Bukowsky infatti, nei suoi personaggi aggrediti dalle passioni, pone un limite di consapevolezza, lo stesso della Madame Bovary di Flaubert, non diverso dal romanticismo quasi mistico di Romeo e Giulietta o da quello tormentato e disperato di Jane Eyre. Punti di partenza diversi, ma aventi lo stesso obiettivo: farcela a esprimere ciò che soddisfa nel profondo. (Con finali differenti che esprimono il messaggio dell’autore).

Oppure: il protagonista ha un problema di crescita?

Se si tratta di Storie di Morte (di crescita), l’incapacità a farcela da dare al protagonista è per certi aspetti più evidente. Qualcosa (dentro di sé) o qualcuno (fuori di lui) gli impedisce di avere una vita piena e soddisfacente. Anche qui c’è un’infinità di esempi, dal senso di colpa di Conrad Jarret in ‘Gente Comune’ di Redford, al conflitto tra Bene e Male di ‘Dottor Jekyll e Mister Hide’, al tormento del ‘Faust’ di Goethe. Ciascun protagonista in questo genere di opere deve affrontare il demone del male (cioè la scarsa consapevolezza di sé stesso) per crescere a una consapevolezza piena e soddisfacente.

A quale di questi due macro-problemi intendete dare risposta attraverso il vostro protagonista?

3)  Una volta che lo avete stabilito, definite il limite o fatal flaw del protagonista entrando nello specifico.
Se è vero che ogni racconto è la storia del problema del protagonista, puntiamo l’attenzione soltanto sul suo problema identificato in uno dei due suddetti macro-gruppi. I problemi fondamentali di un uomo, come detto, non sono cambiati dalla notte dei tempi, quindi la collocazione storica o geografica del racconto ha un valore secondario, ‘estetico’. Sappiamo che fino a Freud i racconti erano generalmente imperniati su ostacoli di natura sociale, quelli di natura psicologica si sono sviluppati successivamente quando, con innegabile genialità, il padre della psicanalisi ha messo l’uomo davanti a uno specchio dicendogli: ‘non sei soltanto quello che vedi o pensi di te stesso, sei molto di più’.

Oggi non ci sono più i Montecchi e i Capuleti a creare ostacolo all’amore, oggi i problemi sono quasi sempre di natura psicologica, individuale. Una confusione di elementi interni dovuti a uno sviluppo non idoneo a una vita piena e soddisfacente. 
Dunque come si caratterizza nello specifico il problema del vostro protagonista? Per entrare ancor più dentro al ‘problema’, occorre porsi altre domande.

Vive passioni sfrenate perché ha paura dell’amore? Vive chiuso in un totale controllo perché ha ricordi dolorosi legati alle sue ‘aperture’? Prende di petto il mondo perché teme di morirvi ‘sotto’? Compie scaltrezze perché non sa di avere delle qualità? O delle doti? Per le stesse ragioni trama contro altri? Tradisce perché ha paura di essere tradito? Uccide qualcuno perché qualcuno ha ucciso qualcosa dentro di lui? Ama tutti perché teme di amare sé stesso? Perché? Non lo merita abbastanza? E perché non lo merita abbastanza? Cosa gli è successo?

Naturalmente molte di queste domande sono sovrapponibili e possono indicare effetti di uno stesso problema, ma è necessario evidenziarne una precisa, corrispondente al problema del vostro protagonista se vogliamo che il ‘racconto’ segua un percorso ben identificabile.

Occorre cioè trovare il punto preciso in cui nel passato del protagonista si è verificato quel dato trauma. È spaventato dal mondo perché ha perduto il padre e non ha più una guida? Quel giorno la sua vita è cambiata. Da ragazzino allegro e spensierato, si è chiuso in un mutismo ostile e impenetrabile. Ora che ha trent’anni, o quaranta, che vita conduce? Conoscete qualcuno che abbia vissuto il dramma di un’esperienza simile? Una persona così ‘in difesa’, può avere una relazione sentimentale? Se ce l’ha, come sarà? ‘Lei’ come dovrebbe essere? Cosa succederà quando ‘lei’ gli dirà che le sue chiusure condizionano il loro rapporto? Lui come si comporterà? Cosa dovrà capire? E in che modo lo capirà?

Perdere un po’ di tempo su queste o altre domande non toglie nulla all’opera che si ha in mente di realizzare, ci costringe soltanto a trovare la maniera precisa con la quale il protagonista esprimerà questo suo disagio in una coerenza di pensieri e di azioni. (Una semplice regola prevede che un timido, posto di fronte a un conflitto, risponda sempre da timido, cioè senza mai alzare la voce).

4) Una volta trovata la domanda specifica che inquadra il ‘non farcela’ vostro protagonista, potrete spendere il tempo che vi rimane per circostanziare gli effetti del suo ‘non farcela’. Starebbe sicuramente meglio se riuscisse ad affrontare il suo problema, vivrebbe bene come desidera, da cosa ne è impedito?

È la parte più intrigante delle riflessioni intorno alla costruzione del vostro protagonista. Ci sono grandi autori come Hitchcock o Allen, o Dostoewskij, che avevano e hanno individuato ‘definitivamente’ il loro problema specifico, legato probabilmente alla loro percezione delle cose. Tutti i film di Hitchcock partono infatti da un unico assunto ‘psicologico’: il protagonista è accusato di qualcosa che non ha commesso, almeno non consapevolmente (senso di colpa); cioè tutti i film di Hitchcock sono basati sul senso di colpa del protagonista, rappresentato da un’accusa esterna o da una fissazione personale. Quelli di Woody Allen partono ugualmente da uno stesso, unico assunto: la scarsa autostima (sempre per un senso di colpa) del protagonista, rappresentata con buffi disagi e ironie. Dostoewskij invece attingeva il suo assunto di base nell’inadeguatezza (senso di colpa) dei suoi protagonisti rispetto a un contesto sociale o familiare brutale e vessatorio.
Si può stabilire insomma che tutto ciò che viene raccontato o rappresentato nelle arti è espressione di un unico tema fondamentale: il senso di colpa. Tutti noi agiamo o non agiamo in virtù del senso di colpa. I nostri personaggi compresi.
Poi questo problema specifico prende la forma di mille rivoli, e dobbiamo essere in grado di dare nome e cognome a quello che intendiamo percorrere.

Di base la nostra stessa esistenza è una ‘colpa’. Occupiamo uno spazio, esprimiamo delle emozioni spesso non condivise, sottraiamo cibo che spetterebbe ad altri se non ci fossimo. È una dimensione che ‘per natura’ ci vede ‘usurpatori’, invasori di una realtà che preesisteva alla nostra comparsa. Ed è proprio qui, nell’incapacità di ‘apparire’, di esistere, di farci spazio, consci dei nostri diritti e delle nostre necessità, che si annida il germe della colpa. Mi spetta il diritto di essere felice? Allora perché non me lo concedo? Lo devo elemosinare o pretendere?
Ovviamente non possiamo raccontare sempre la storia della cacciata dal paradiso terreste, che di colpa primigenia parla. Per questo tale ‘colpa’, nei racconti, viene caratterizzata da questo o da quell’evento traumatico che rappresenta il ‘problema’ del protagonista. Definire nello specifico di cosa si tratta, quale sia l’evento traumatico, serve a far vibrare della stessa corda chi legge un libro o chi assiste a un film, poiché lettore e spettatore vivono o hanno vissuto la stessa difficoltà. Il senso profondo che da quell’opera artistica ne ricaveranno, pur con problemi diversi, sarà lo stesso. ‘Farcela’.

È chiaro che se un protagonista vive passioni sfrenate è perché teme i sentimenti, ma anche di aprirsi a emozioni che lo hanno ferito, per questo non si fida, per questo fa le scarpe agli altri. Ma, come detto, queste caratterizzazioni sono in realtà quattro racconti diversi. È necessario trovare il trauma specifico, la domanda specifica che lo rappresenta, che rappresenta il suo particolare impedimento, e avrete ‘in pugno’ il vostro protagonista.

Se un protagonista vive passioni sfrenate, da piccolo avrà subìto, direttamente o indirettamente, lesioni o ferite riferibili ad un’affettività mancata. Non può, per esempio, essere orfano di genitori morti in un incidente stradale (anche se nella realtà non si potrebbe escludere). Sappiamo per esperienza che chi ha perduto i genitori da piccolo tende generalmente a chiudersi dentro di sé.
Se un protagonista si esprime violentemente, non possiamo rappresentarlo da piccolo colpito da una malattia invalidante. Magari invece avrà avuto un padre violento o sarà cresciuto in mezzo alla strada.
Se una protagonista femminile ha molte qualità e non riesce a esprimerle per esempio nel lavoro, probabilmente avrà avuto una madre che mortificava la sua femminilità, oppure un padre che la sottostimava (magari tutt’e due).

I genitori possono non essere più in campo (se il protagonista ha superato i venti-venticinque anni in genere non se ne parla più), ma ciò che il nostro protagonista è diventato li comprende incarnando il trauma da loro ereditato. Cioè una parte di sé ormai è diventata quel trauma nell’incapacità di essere felice. Quindi è con questo suo essere adesso ‘quel problema’ che deve fare i conti, e l’autore dovrà rificcarcelo catarticamente.

Ci sono decine e decine di film che espongono questo ‘teorema’ in maniera quasi meccanica: il poliziotto ha provocato inavvertitamente un danno a un bambino e si ritrova a fare il poliziotto in una scuola elementare; una donna ha perso un figlio e si ritrova a fare la baby-sitter; un criminale vuole abbandonare il crimine e viene rituffato in una rapina; una donna vuole imparare a conoscersi meglio e si ritrova con un uomo che vuole assolutamente sposarla.

Questi impedimenti e resistenze sono il coperchio che lo stesso protagonista si è creato nel tempo (inconsapevolmente) comprimendo le proprie ambizioni, la propria giusta aspirazione a una vita emotiva piena e soddisfacente. Nessuno è più “colpevole” di lui, dovrà scoprirlo.

Per concludere, possiamo considerare l’idea di ‘farcela’ il problema specifico del protagonista che incontra il proprio limite come opportunità, il ‘diritto a esistere’ come prezzo da pagare, che nessuno può desiderare quanto lui, a che altri non possono pagare al suo posto.

venerdì 5 settembre 2014

TITOLI DI CODA. QUANDO TANTO DI CODA NON SONO.


I Titoli Di Coda, soprattutto nelle commedie, vengono spesso usati per verbalizzare il 'messaggio del film'. Quelli di THE BIG KAHUNA sono davvero speciali. Il soggetto e la sceneggiatura sono di
Roger Rueff, e il film è tratto da una sua commedia teatrale. Qui la mano dell'autore è pesante, e tanto leggera da affascinare.

venerdì 22 agosto 2014

MOLLY RITROVA SAM... UNA NUOVA VITA



Indimenticabile "Ghost", il cui successo di pubblico fu clamoroso e inatteso. Molly si riunisce con l'anima dell'amato scomparso Sam che poi scompare nella luce dell'aldilà. Un NUOVA VITA per entrambi. Quello che più conta non è visibile, in quel "ti amo" che da vivo Sam non era riuscito a dirle.  Lo sceneggiatore Bruce Joel Rubin vinse l'Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale nel 1991. La sua opera migliore, escludendo "My Live - Questa mia vita" con Michael Keaton e Nicole Kidman.