mercoledì 26 marzo 2014

THIS IS THE END: IL PUNTO DI MORTE


Parlare di Morte, cioè del Punto di Morte nella struttura narrativa (fine del secondo atto) non è facile poiché, più di tutti gli altri snodi narrativi, il p.d.m. rappresenta uno stato d’animo preciso e profondo.

Sinteticamente il Punto di Morte rappresenta il punto più lontano dall’obiettivo iniziale del protagonista. Abbiamo iniziato con un uomo che non sapeva esprimere i propri sentimenti, ora lo facciamo “morire” per questa sua incapacità. Qui “sostanzialmente” finisce il film, è la Fine del Secondo atto. Fino a qui, si dice, tutti i racconti sono uguali, cioè il protagonista ha impattato il problema che doveva incontrare. Il finale del Terzo Atto rappresenta il ‘messaggio’ che lo scrittore vuole lanciare dando la sua personale visione del senso di questo ‘impatto’.

In una Storia di Morte il protagonista che voleva beccare il cattivo viene da lui beccato (contatto fisico con la morte), oppure l’amico, il collega o una persona a cui teneva molto muore (contatto proiettato); nelle Storie d’Amore, il protagonista, nel p.d.m., viene invece mollato definitivamente dalla donna di cui è innamorato (contatto psicologico con la morte).

Prendere confidenza con questo ‘snodo’ è importante. Oggi non si parla più di morte, argomento scomodo, si dà invece molto più spazio alle diete salutiste e ai viaggi esotici. Ma nessuna ‘meravigliosa vita’ che immaginiamo può essere incontrata laddove non sia il prodotto di una morte. Perché la vita è un “fenomeno” che include la morte. La morte fondamenta di una trasformazione in qualcosa di diverso e più completo, di più vitale appunto.
Nel racconto l'approdo a una vita più appagante e soddisfacente rappresenta lo scopo per cui si narra, quindi la ‘morte’ deve essere necessariamente incontrata dal protagonista, proprio per donargli la nuova ‘vita’ di cui sente bisogno e necessità.

È importante che un’esperienza del genere ci sia capitata nella vita. Trovarsi cioè ad un bivio, e sapere che dipende da noi – e soltanto da noi – l’esito della nostra vicenda umana. È un attimo, una decisione da prendere, o la nostra vita resterà in quella zona grigia in cui è sempre stata. Un pugno di secondi che possono cambiare la nostra esistenza, o farla rimanere così per sempre. Il rischio percepito è grande, quel passo non l’abbiamo mai fatto. Abbiamo cercato un senso in quello che fino adesso è stato il nostro comportamento, ma in effetti non ci soddisfa più come prima. E qualcosa, di quel vecchio comportamento, si appalesa chiaramente come vero e proprio alibi o limite. Nell’Eneide, la Sibilla dice a un certo punto a Ulisse: “è facile la discesa nel mondo degli inferi, ma tornare sui propri passi e fuggire verso l’alto, questo è il compito, questa è la dura prova”.

Il p.d.m. per me è il racconto, è l’ombra che si svela, la minaccia che domina potente e incontrastata. Quando penso a un personaggio a cui voglio dare vita in un racconto, per prima cosa penso a dove morirà. Dove morirà il suo infantilismo, la sua parzialità, la sua personalità solidificata come cemento?
Come sanno tutti coloro che scrivono, ci sono punti in un racconto in cui lo scrittore pone maggior attenzione rispetto ad altri, punti che sono la cartina da tornasole delle cose che vuole che tornino nel modo in cui ha deciso.
Ci sono scrittori che prima di tutto devono avere chiaro ‘come va a finire’ la storia, altri che si concentrano ‘sugli ostacoli che il protagonista incontra’ (determinano il suo carattere, e il suo limite, nelle difficoltà), altri non vogliono neanche sentir parlare di struttura o stregonerie del genere, attaccano a scrivere senza porsi il problema di dove andranno a finire, lasciandosi portare dai loro personaggi. A ciascuno il suo.
Comunque sia io credo che il protagonista prima o poi il p.d.m. lo debba impattare. Se chi scrive sa “come muore” il protagonista, sa anche per cosa vivrà, e soprattutto sa per quale motivo non ha vissuto pienamente fino a quel momento. 

Il Punto di Morte rappresenta l’emozione del protagonista totalmente compressa (depressa), il momento da cui, un attimo dopo, si genera nuova vita. Fa pensare al caos primordiale, qualcosa d’informe dal quale si eleva improvvisa e imperiosa la vita. Morte che trasforma la Vita. Morte dunque come presupposto di Vita. Poco dopo (in un racconto), il protagonista viene infatti precipitato verso una risposta emotiva esplosiva che lo riscatterà da una vita passiva e insoddisfacente (Climax).

Il Punto di Morte è importante perché segna la “conoscenza più dolorosa del problema”. È la depressione, il disagio profondo, a volte anche la malattia, in cui possiamo cadere per non “cedere” alle emozioni. Mi ha sempre sorpreso quanto a volte riusciamo a fare di tutto per non ‘sbloccarci’ e costringerci ad una condizione di sofferenza emotiva.

Questo momento mi ha sempre richiamato l’idea di una di quelle macchinette caricate a molla che c’erano tanti anni fa: si girava la chiavetta finché non era più possibile girare, poi la si metteva a terra, si mollava la presa e quella schizzava via come un razzo. Ecco, il Punto di Morte è quella macchinetta caricata al massimo ma trattenuta in mano senza mollarla. Energia compressa, accumulata, trattenuta, pronta ad esplodere ma impossibilitata a farlo… il Punto di Morte.

È capitato a tutti di sentirsi talmente compressi in una determinata situazione da ‘stare per esplodere’… Poi non si è esplosi? Perché? Cosa temevamo? A questo proposito, c’è una splendida battuta nel film ‘Segreti e Bugie’ che spiega la natura di questo impedimento. Il protagonista, dopo tanto tormento a mandar giù rospi, riesce finalmente a dire ciò che sente veramente, e, una volta “esploso”, volge gli occhi al cielo. Un istante di sorpresa quindi considera, piacevolmente stupito: ‘ma dov’è il fulmine che mi doveva colpire?’

Se conosco dove il mio protagonista ‘morirà’ saprò dove sbagliava e come potrà andargli meglio. Il Punto di Morte è fondamentale. Finora, per tutto il racconto, il protagonista ‘se l’è aggiustata’ con la vecchia personalità: ora semplicemente non può più farlo.

A differenza della Fine dello Stato di Grazia (Mid Point), dove il protagonista ha intravisto la possibilità della propria fine (il killer che ha deciso di farlo secco, oppure l’amata che gli ha detto ‘impara ad amare o vaffanculo’), dove cioè è stato esortato al cambiamento e lui ha intravisto che un cambiamento da fare forse c’era, nel Punto di Morte egli fallisce in questo tentativo (pur percepito come necessario) a causa delle sue resistenti resistenze, residui della ‘vecchia personalità’.

Egli ha esitato un’ultima, fatale volta. Il tempo è scaduto, non c’è più nessuna possibilità di recuperare. Rimpianti, recriminazioni, giustificazioni non servono più. Quello a cui teneva maggiormente è irrimediabilmente perduto. La partita è persa e non ce n’è un’altra. “Morto”, finito, sconfitto.

Il protagonista, in questo punto, si rende conto che le armi usate fino a quel momento sono state inefficaci, e anzi adesso gli appaiono ridicole, e si sente persino male al solo pensiero di averle adoperate. “Che idiota sono stato!..”
Cos’hanno prodotto quelle armi, cos’ha prodotto la sua ‘vecchia personalità?’ Niente. La fine di tutto e basta.
In più avverte l’impotenza delle nuove “armi” che ancora gli mancano, ma ci sono, le percepisce in potenza, ce le ha in mente, ma è troppo spaventato e insicuro per usarle. E sa pure che se non le userà “morirà”. Morte e Vita stanno in perfetto equilibrio, nessuna, in quell'istante, riesce a prevalere sull'altra. Non ci sono più discorsi da fare, parole da dire, considerazioni da fare, c’è un’urgenza vitale, impellente, inevitabile: bisognerebbe agire!
Bisognerebbe.

Si tratta di un interregno, un purgatorio, un limbo angosciante e tormentoso (che in un racconto può durare pochi minuti o tante pagine in un romanzo). Che deprime il protagonista, che lo ‘uccide’. La morte che serve, a cui non può sfuggire (che lo costringerà a una reazione). Quello che avrebbe potuto fare e quello che non ha fatto. Purtroppo le possibilità sono finite e non ce ne sono di nuove. Possibilità sognate, prospettive agognate… Tempo scaduto. Troppo tardi. Non è stato abbastanza forte, intraprendente, determinato. “Morirà” per questo.

(Nella realtà ci si può passare un’intera vita in questo punto. Per questo i racconti affascinano. Perché lì siamo sicuri che a questo punto il nostro protagonista farà la cosa giusta, qualcosa di eclatante che lo riscatterà a una vita piena e soddisfacente).

Ci sono registi, ad esempio Spike Lee, che a volte hanno fatto terminare i loro racconti nel Punto di Morte. Come dire: ‘il protagonista (e tu, spettatore) hai questa chance nella vita. Devi saperla cogliere o morirai (emotivamente). Spike Lee non ci ‘consola’ con il protagonista che alla fine ce la fa, che “visse felice e contento”. Lancia la palla allo spettatore dicendogli: ‘hai capito cosa ti aspetta se non ti dai una mossa?’
Dara Marks, una sceneggiatrice americana che ho conosciuto, diceva che tutti i film sono uguali fino al Punto di Morte, cioè fino alla fine del secondo atto. Perché fino a quel punto il ‘percorso umano’ è lo stesso. Incontrare la Morte. Comprendere cioè i limiti del proprio agire. Morirci per comprenderli.
La differenza, narrativamente parlando, la fa il terzo atto dove l’artista rappresenta il suo personale punto di vista, il proprio “augurio” allo spettatore o al lettore, (anche, come Spike Lee, omettendolo).

Il Punto di Morte ci mette a contatto con un “peso”, il dolore di esserci, che fino a quel momento – nel disperato tentativo di eluderlo o negarlo – ci ha reso la vita condizionata e confusa, dunque parziale. La morte narrativa è intesa come ‘punto’ in cui il protagonista muore delle fanciullesche illusioni, della propria parzialità, della propria mancanza, e dove comincia a considerare che la propria vita comprende la morte, la fine di tutto ciò che era (perché un giorno, biologicamente, avverrà sul serio), e che per comprendere questa fine la deve attraversare (metaforicamente), accettare quel dolore, quella prospettiva, quel limite, quella consapevolezza. Affinché la sua vita abbia finalmente un sapore pieno e appagante che comprenda tutto.

Rinunciare a certi schemi mentali (parziali e quindi mortiferi) legati alla nostra personalità, che fino a questo momento ci hanno guidato, è la cosa più difficile. Cosa ci impedirebbe sennò di vivere felici, liberi da paure e condizionamenti?
È capitato a tutti di pensare all’esistenza di una vita migliore di quella che uno si ritrova a vivere (Fine dello Stato di Grazia), ma trovare la forza per mettere in atto un cambiamento che vada in questa direzione è molto difficile. Anche e soprattutto per la struttura mentale che si è formata in noi, e che si è stabilizzata in decine e decine di anni realizzandosi persino in espressioni che riteniamo virtuose. Abbandonare le vecchie convinzioni per cosa?
Ecco, nel p.d.m. il protagonista non ha ancora chiaro il vantaggio del cambiamento, eppure sente ineludibile e incalzante la necessità, l’urgenza di sperimentarlo. Perché con ciò di cui era convinto ha fallito. Deve, o “morirà”.
È l’emersione di qualcosa che improvvisamente lo domina, ma che per la prima volta egli percepisce come dominio vitale.
Ma quando questa “follia” agisce tutto si trasforma, la realtà da bianco e nero diventa in technicolor, dolby surround, digitale, in 3D. È tutto quello che vogliamo in fondo, trovare questo slancio per mostrare a viso aperto ciò che si è, ciò a cui si aspira, che si sente, lo ‘spettacolo spettacolare’ che ciascuno ha dentro di sé.
E allora quel “cavolo, potevo farlo”, di colpo si trasforma in ‘basta, ora lo faccio!”

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