Ogni storia racconta
una morte. Morte della paura/problema (fatal
flaw), dei recinti da essa creati all’interno dei quali il protagonista ha cercato
di sopravvivere. Finché quella paura non l’ha definitivamente sommerso nel Punto di Morte. Nel Climax però il protagonista ha reagito in maniera vitale, ed è arrivato alla Nuova Vita. È arrivato cioè a capire che
vivere significa essenzialmente non finire preda delle proprie paure (caratterizzate
in gran parte da emozioni inespresse) trovando ad esse una risposta positiva. Una
consapevolezza che rappresenta, nella Nuova
Vita, l’ultimo capitolo del viaggio del protagonista. Quindi del nostro
viaggio sugli snodi della struttura narrativa.
Nella struttura
narrativa, la Nuova Vita rappresenta l’applicazione
pratica di ciò che il protagonista ha acquisito emotivamente alla fine della
sua strada, l’elisir, il dono dopo una dura lotta interiore. Il premio. Vivere significa avere la possibilità
di godere del bene delle cose, delle persone e di sé stessi come unici valori ammissibili,
senza condizionamenti psicologici o di una morale collettiva. Nella capacità di
accogliere e restituire emozioni positive sta l’alloro conquistato dall’eroe.
La scena di Nuova Vita di “Qualcosa è cambiato” in
cui Melvin Udall (Jack Nicholson) invita Carol Connely (Helen Hunt) ad entrare
all’alba in una panetteria con l’unico scopo di gustarvi del pane fresco, indica
molto in questo senso. Gli scontri di Melvin Udall, i conflitti, le angosce, i baratri…
infine soltanto la dolcezza di un gesto, di un desiderio semplice, quasi
banale, da condividere con qualcuno che si è scoperto di amare. È questo l’elisir di lunga vita. Nessuna pozione
rivitalizzante, né bacchetta magica, né ricetta di felicità: la ricompensa è
vivere senza paura ciò che si sente.
I film e i
romanzi a questo punto terminano con una breve scena o con un paragrafo in cui viene
rappresentata questa conquista interiore. Il protagonista ora semplicemente vive, senza più un passato che lo confonde
e un futuro che lo condiziona. Egli, come detto, non ha guadagnato un
ragionamento più appropriato, né acquisito una teoria ben formulata, né s’è
indirizzato verso abitudini più salutari, ha trovato una completezza emotiva spurgata dalle paure iniziali che la inibivano.
E ha ritrovato ciò che era.
Una completezza
emotiva rappresentata dalla riunione dell’Anima con l’Animus, nelle Storie d’Amore;
del trionfo della Vita sulla Morte nelle Storie di Morte.
L’Animus e l’Anima si sono integrati nel profondo (dove prima vivevano separati e guardinghi)! Le due parti della mela socratica si sono riunite, lo yin e lo yang si sono incontrati… sollevandoci dalla paura della separazione, rendendoci finalmente individui.
Una ‘riunione’
che emotivamente nel protagonista produce un ‘distacco empatico’. Eventi e persone
ora non lo travolgono più. Capace di esprimere le proprie emozioni come acqua d’un
torrente che prende la forma degli ostacoli che incontra e li supera, il
protagonista ora ha la possibilità di affrontare qualsiasi circostanza senza necessità
di aggredire né di celarsi, capace di esprimere la totalità di ciò che prova in
quel preciso istante, immune da qualsiasi invasione emotiva.
La montagna delle
paure che incuteva soggezione e lo costringeva alla fatica, ai sacrifici, ai
conflitti, ora non appare più grande d’un granello di sabbia. E sorride con
benevolenza verso tutto ciò che stato. Che è servito per giungere in un altro
luogo: dentro di sé.
Ulisse torna a
casa dopo lungo, drammatico peregrinare a riprendersi ciò che gli apparteneva
già da prima di partire. Ha dovuto misurare le proprie forze e scoprire i
propri limiti per tornare a riappropriarsi di ciò che era già suo, non più
confuso né spaventato.
“Comunque,
tutto quello che continuavo a dire a tutti era ‘voglio tornare a casa’”. Sono le
parole di Alice nel Mago di Oz, rivolte a zia Gemma alla fine della
rocambolesca avventura.
Il ritorno è ad
un luogo di sé stessi, nella riscoperta di una pace e di una chiarezza
interiori che il protagonista possedeva temendole, libero finalmente da oscure figure
interiori (antagonisti, nel racconto) che gli offuscavano la vista. Le ha
affrontate, quelle oscurità, e le ha vinte integrandole nel Climax, ora sono
parte di lui come vissuto, come un’esperienza fatta che non lo condiziona più ma
lo arricchisce.
(Sembrano davvero
assurdi tanta fatica e tanto dolore in un cammino tortuoso e ripido nel
tentativo di arrivare ad ottenere ciò che già si possedeva all’inizio del
percorso. Ma il senso dell’esistenza pare proprio questo).
Nelle Storie
d’Amore, tutto questo pare risolversi con un ‘ti amo’ declinato in varie maniere.
In maniera
magistrale è raccontato nel film “Ghost”. Una storia d’amore che quindi narra la
riunione tra Animus e Anima. E tanto questa necessità di riunione appartiene a tutti noi che non
ci importa se il protagonista è morto, se la scena in cui questa riunione
avviene sia del tutto irreale. Un deceduto, Sam Wheat (Patrick Swayze), che amoreggia con una persona
viva e vegeta, Molly Gensen (Demi Moore). Ma desideriamo talmente sentirlo esprimere
su quest’’incapacità’, che sappiamo quanto lo facesse vivere in maniera
emotivamente parziale – a causa di quel ‘ti amo’ che in vita non era stato
capace di dire - che non rivolgiamo alcuna attenzione “all’irrealtà” di quella scena.
Il ‘miracolo’ che si compie davanti ai nostri occhi ci fa apparire il resto assolutamente
reale.
È singolare
infatti quanto poca attenzione facciamo ad eventi a volte davvero improbabili,
raccontati in film o romanzi per esempio di fantascienza; l’eroe si vaporizza inalando
uno spray per poi riapparire teletrasportato a migliaia di chilometri per dire
alla sua amata ‘ti amo’: eppure noi lo troviamo perfettamente credibile.
Il “film” che
vediamo infatti, come già detto, è sempre lo stesso, cioè il nostro, e sulla
pellicola o sulla carta viene rappresentato ciò che abbiamo bisogno di vedere.
Le storie raccontabili, anche questo già detto nel post sui Proto-Soggetti, sono quattro, cinque al
massimo. Una riguarda la nostra incapacità di amare, le altre due l’incapacità
di crescere e di sopravvivere, con un paio di variazioni sul tema. Rivediamo infatti
da secoli sempre le stesse quattro/cinque storie declinate in migliaia di modi
diversi nelle varie epoche e secondo varie usanze o culture, eppure trovandole ogni
volta emozionanti. Perché abbiamo bisogno
di vederle. Di trovarvi quel senso dell’esistenza che molto spesso ci sfugge
tra le dita. Emozioni esterne che inducono emozioni dentro di noi, come una
chiave che riattiva un motore spento. ‘Accensioni’ di cui è difficile essere
sazi finché, proprio come in un film, nella vita non riusciamo ad ‘accenderci da soli’. La
nostra Nuova Vita.
Nelle Storie di
Morte, questa ‘presa di coscienza’ viene rappresentata in maniera più
“semplice”, dopo il Climax dov’è
avvenuta la feroce lotta del protagonista contro l’antagonista, del Bene contro
il Male.
Nella scena di
chiusura di Nuova Vita - nelle Storie di Morte - ritroviamo il
nostro eroe ammaccato ma vittorioso. C’è in genere un’ambulanza pronta a portarlo
via dopo che ha salvato un gattino, o la fidanzata, o la città, o il mondo
intero. La scena con l’ambulanza è un classico. L’eroe ferito sanguinante e il
cagnetto, o la fidanzata, o il sindaco o l’intera umanità che gli fa una
carezza mentre in barella l’intrepido scompare dentro l’ambulanza. La Macchina
da Presa si solleva verso l’alto fino a comprendere tutta la strada inondata di
lampeggianti della polizia mentre scorrono i Titoli di Coda.
The end.
Per il
protagonista delle Storie di Morte, l’”elisir” della Nuova Vita è infatti dato “semplicemente” dalla capacità sviluppata
di non finire morto, dalla consapevolezza di avercela fatta. Nel bacio o nella
medaglia che ne riceve in premio.
La Vita ha
lottato contro la Morte, le ha prese di santa ragione, ma alla fine ha vinto. La
Vita ha sopraffatto la Morte, in uno slancio feroce, violento, arcaico, essenziale.
Vitale.
Memorabile la
scena finale di ”Platoon” scritto e diretto da Oliver Stone quando – sui
Titoli di Coda - i marines tornando dall’atroce battaglia cantano una canzone
di Walt Disney mentre la voce fuori campo di Chris Taylor (Charlie Sheen) ricorda che ciò che ha vissuto in quella terribile esperienza non aveva senso, tranne per il fatto che fosse sopravvissuto.
Nelle Storie di
Morte vi sono tuttavia Nuove Vite molto
meno muscolari, in genere legate al senso di colpa (nemico interno), aspetto
che praticamente caratterizza quasi tutta la cinematografia di Hitchcock.
Uno splendido
esempio è anche in “Gente Comune” scritto da Alvin Sargent, quando alla fine il giovane
Conrad va a scusarsi con la sua ragazza per essersi comportato come uno
stupido. Quando lei gli chiede di entrare a fare colazione lui accetta sentendo
di avere fame. Dopo che Conrad
per tutto il film ha combattuto contro il senso di colpa dovuto alla morte del
fratello, il semplice accettare quella colazione dà la netta sensazione che sia
tornato alla vita, molto più di quanto sarebbe stato se le avesse spiegato a
parole il suo miglioramento.
È infatti così
che viene rappresentata la Nuova Vita.
Un segnale emotivo chiaro ed efficace, non c’è bisogno d’altro. Naturalmente realizzarlo
al cinema è più facile poiché basta un’immagine o una battuta ben
contestualizzate per far scaturire un’emozione profonda. Nei romanzi questo
momento è meno diretto, le parole rubano alle emozioni.
L’elisir della Nuova Vita è sapere che non c’è un
domani, che tutto ciò che di buono possiamo ottenere dalla vita è qui ed adesso, che i nostri errori non
sono stati altro che tasselli di un puzzle che alla fine si è composto nel
disegno di una vita emotivamente piena ed appagante, dandoci la certezza che non
esiste una morale più alta di quella rappresentata dalla nostra gioia di vivere,
e che la gioia di vivere che si riceve da una qualsiasi relazione giustifica il
fatto per cui dovremmo alimentarla.
Se finora
abbiamo parlato di zone di racconto (snodi narrativi) che altro non sono che la
successione di crescenti emozioni che portano dal pensare ‘sto male’ a dire ‘ora
sto bene’, è evidente che dalla Nuova
Vita in poi non vi sia più molto da raccontare. Nella pienezza e nella
gioia del vivere non vi è alcun dramma da narrare, quindi nessuna opportunità
per comprendere e aggiustare i nostri drammi.
Interessante allora
è ricordare che noi stessi percorriamo la strada dell’eroe molte volte al
giorno tentando di vincere ciò che ci affossa. Cento volte al giorno tentiamo
lo stesso viaggio, eppure, a volte, non basta una vita per riuscire a
completarlo. Educazione, “carattere” o condizioni sociali spesso ce lo
impediscono.
Penso che anche
questi post siano stati un tentativo di farcela, prendendo a pretesto i
tecnicismi narrativi. Ma se avranno suscitato una qualche riflessione, o uno
stimolo di qualsiasi genere, non sarà stato, come spero, un tentativo vano.
Comunque il viaggio
del protagonista è finito. Nel congedarci usiamo la formula KISS (Keep It
Simple, Stupid), “Falla semplice, stupido”, suggerita agli sceneggiatori a fine
racconto da C. Vogler.
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