lunedì 26 maggio 2014

ORDINARY WORLD: DA DOVE SI COMINCIA.


Quella rabbia che chiede soddisfazione, anche nell’amore.
Questa frase mi sembra un ottimo spunto per provare ad inquadrare il problema del protagonista nelle Storie d’Amore. Cosa lo offusca al punto da fargli considerare accettabile una vita che non lo soddisfa appieno ma che “insiste” a condurre?
Per questo motivo all’inizio d’un racconto si parla di bassa consapevolezza del protagonista. Egli non è del tutto consapevole di ciò che lo rende infelice, non abbastanza perché possa considerarlo un problema.
E se alla suddetta frase togliamo anche nell’amore, abbiamo una Storia di Morte.

Parlare del Mondo Ordinario del protagonista è argomento arduo e complesso, e poco di addice a un post (in questo caso ancor meno rispetto ai successivi snodi narrativi). Ma se è vero che ogni storia è la storia del protagonista, non si può non cominciare che col parlare di lui.
Le trasformazioni che il protagonista subirà nello svolgimento del racconto sono la parte empatica e rappresentano l’essenza, il significato di ciò che viene raccontato. Il cosiddetto plot, cioè gli eventi esterni, la trama che si dipana intorno a lui, altro non è che il vestito di un corpo che lo scrittore dovrebbe conoscere nei suoi aspetti più profondi avendo operato, come vero e propro chirurgo, giù fino ai tendini, alle ossa, al sistema cellulare composto in ultimo dalle nostre cellule sessuali – le uniche separate. La cellula sessuale è infatti costretta a dividersi in due parti entrambe dimezzate nei cromosomi e bisognose di reintegrazione. Questo meccanismo dimostra la necessità della materia vivente di creare perciò situazioni intollerabili per scatenare reazioni vitali.

L’intollerabile separazione.

Ogni storia è perciò in sostanza il tentativo di tornare a questa ‘riunione’ cellulare, che psicologicamente assume le forme dell’animus e dell’anima junghiani. È questo il viaggio, e ciò lo si ottiene partendo dalla destrutturazione di ciò che siamo diventati nell’espressione di questa riunione mancata, prendendo quindi coscienza di ciò che siamo e di ciò che cerchiamo veramente. È il viaggio che il nostro protagonista sperimenta, è il nostro viaggio, che, purtroppo, questa sede ci costringe ad affrontare con rapidi colpi di pennello nel tentativo di rintracciare ‘suggestioni’ riconducibili a tale scopo.

All’inizio era il caos. Dobbiamo perciò cominciare col mettere ordine al caos, separare il grano dalla crusca, nel modo indicato da Jung in riferimento all’opera dell’artista chiamato, a suo dire, a smontare la propria follia per conoscere com’è fatta, per poi ricostruirla tale e quale affinché lo spettatore o il lettore vi possano riconoscere le loro.

Torniamo dunque al nostro protagonista. Abbiamo detto che il suo problema costituisce essenzialmente il nostro racconto. Possiamo genericamente accennare a qualche tipo di problema: non riesce ad amare, non riesce a crescere, non riesce a realizzarsi, etc.. È bene conoscere su cosa vogliamo mettere le mani, e una volta che lo abbiamo definito non dovremo più distogliere lo sguardo da lì perché ciò costituirà il tema del racconto. Quello che avremo scelto, il problema cioè del protagonista, rappresenterà il suo fatal flaw, ovvero il suo danno da aggiustare. Parleremo di questo danno per tutto il racconto, dal punto in cui nasce al momento in cui si risolve, inserendo la vicenda nei luoghi e nelle epoche che stabiliremo in base al nostro gusto personale.

Bisogna perciò innanzitutto conoscere il problema del protagonista (sempre emotivo) e anche il modo in cui potrà risolverlo. È vero, ci sono scrittori che si mettono lì e attaccano a scrivere fidando nella propria vena creativa, ed è un bene, tuttavia credo che conoscere ‘dove si va a parare’ non faccia male, nell’aiuto che può darci a focalizzare ciò che raccontiamo prima che il protagonista scopra da solo ‘dove voleva andare a parare’.

L’inizio di una storia deve contenere la fine, o perlomeno una sua prospettiva (almeno nelle intenzioni di chi scrive). Se per esempio voglio raccontare la storia di un dongiovanni, è necessario che all’inizio lo scrittore rappresenti (con un’immagine o una frase, detta pure da altri) il limite di questo suo ‘carattere’, cioè il disagio di non vivere l’amore sebbene circondato da donne. È un problema di fiducia il suo? In chi? In sé stesso o negli altri? O in tutt’e due? Ha paura di cosa? Cosa vorrebbe?
Se parlo d’un avaro, dovrò forse comprendere che esso vede nell’accumulo di denaro un sostituto dell’amore che gli manca. Ha il terrore che qualcuno gli porti via i soldi? Preferisce ‘tenerlo tutto per sé’? A discapito di cosa? Questo come lo fa vivere? Cosa sogna un avaro?
Queste ed altre domande servono per ‘illuminare’ l’altra faccia del protagonista, quella che per tutto il racconto terremo oscura (l’Ombra Junghiana che impatterà nella Prova Suprema e per la quale morirà nel Punto di Morte). L’altra faccia di cui, fino alla fine, non parleremo mai, che mostreremo al protagonista (o al lettore o allo spettatore) soltanto nelle forme in cui lui la teme.

La sintesi delle risposte a queste domande preliminari sul protagonita può essere rappresentata appunto da una sola immagine o in una sola frase all’inizio del film. Anzi, più si riesce a trovare una sintesi, più significa che si è centrato il fatal flaw.
Domande di partenza: quale problema ha il protagonista? Come lo esprime? Di cosa ha paura? Cosa desidera in realtà? Come lo realizzarà?

‘Problema’ che è il suo fatal flaw, sempre costitutito, in ogni film e in ogni romanzo, dall’incapacità del protagonista di espriemere la propria parte emotiva. Cito due esempi cinematografici a mio avviso tra i più folgoranti e illuminanti: Little Miss Sunshine in cui, in primo piano, Richard Hoover (Greg Kinnear) parla alla platea dei dieci scalini per raggiungere il successo, ma un attimo dopo scopriamo che la platea è praticamente vuota. Problemi di comunicazione? Già, e cosa produce problemi di cominicazione? La scarsa stima di sé stessi, la mancanza di autostima? E perché si ha scarsa autostima? Forse perché non siamo stati abbastanza valutati nell’infanzia? Cioè non ci è stato dato quel necessario apporto di affetto per vivere senza doversi poi sentire sempre in dovere di dimostrare quanto si è bravi ed ‘esperti’? Gira che ti rigira, sempre lì andiamo a finire: quello che abbiamo ricevuto e quello che siamo in grado di dare.
L’altro esempio, più ‘antico’, vede Thomas Edward Lawrence (Peter O’Toole) in Lawrence d’Arabia. Proprio in apertura, egli dà prova di resistenza ai commilitoni facendo bruciare un cerino sotto il palmo della mano. Non sente dolore. Già, e perché in genere non si prova dolore? Neanche di fronte a traumi violenti? Forse ci auto-anestetizziamo? E perché abbiamo questa ‘necessità’? Per caso nell’infanzia abbiamo sperimentato un dolore simile e ci siamo corazzati al punto da non voler provare più niente? E di fare persino di questo distacco una virtù? (Di Thomas E. Lawrence scopriamo infatti che è figlio non riconosciuto di un ‘lord’ inglese, cioè di un uomo che non lo ha mai voluto, ovvero di un uomo in cui non si è identintificato e che perciò ‘sfida’).
Un fatal flaw verbalizzato è meno efficace. Uno molto divertente c’è in "What Women Want” dove Lola (Marisa Tomei) alla cassa del bar gela il caracollante Nick Marshall (Mel Gibson) con un: “Nick, che devo fare per convincerti? Io non sono il tuo tipo, dammi retta, lo so.” Lo spettatore percepisce che Nick è uno che se la racconta in fatto di ‘saperci fare con l’amore’, è che è l’unico a non saperlo.

Domande. Domande che servono per giungere al “senso”, all’anima del nostro racconto, che abilmente cripteremo prima del disvelamento finale. Di regola si dice che se si vuol parlare d’amore, non bisogna parlare d’amore. Nel memorabile romanzo Le Relazioni Pericolose di de Laclos la parola ‘amore’ non viene mai espressa dai protagonisti, mai nel senso che questa parola generalmente intende.
Domande. Porsi e far porre domande al protagonista. Il lavoro dello scrittore credo consista essenzialmente nel porsi domande, non nel dare risposte. Le domande sono molti più interessanti, e se ben poste ‘seducono’ più delle risposte.

Nel caso delle Storie di Morte (tutte le storie di genere) il fatal flaw del protagonista è applicato alla sua necessità di sopravvivere ad un evento minaccioso. Qui la lotta è della Vita sulla Morte, mentre nel caso delle Storie d’Amore si tratta della riunione di animus e anima junghiani, la scoperta cioè di quel qualcosa che manca e della sua successiva integrazione.
Il fatal flaw di ogni protagonista di Storie di Morte è se vogliamo molto più arcaico di quello delle Storie d’Amore in quanto la sua priorità è sopravvivere ancor prima di avere la possibilità ad amare. Il nostro protagonista, nelle Storie di Morte, sarà abbastanza forte e coraggioso da affrontare ciò che lo affossa, rappresentato, nella sua Ombra, dall’antagonista? Cos’è che in realtà lo invade al punto da doversi produrre infine in una forte reazione vitale? Un evento traumatico del passato? Oppure quest’invasione è semplicemente rappresentata da dei classici alieni? Oppure si tratta d’un ricatto di cui è vittima?

Ma, come si evince, sempre di ‘qualcosa che manca’ parliamo. Nel trovare la forza di vincere la morte, in questo genere di storie, in quella di riuscire ad amare nell’altra. Che pure questi due aspetti, se vogliamo, sono espressioni di un unico aspetto. Senza amore si muore. Oppure, si muore se non si è abbastanza forti da amarsi. Ma, per ragioni narrative, è necessario porre anche qui una ‘separazione di genere’. Storie d’Amore e Storie di Morte.

Come molto spesso succede dopo aver seguito corsi di sceneggiatura o di scrittura, se ne esce con un block notes pieno di appunti e con una bella confusione in testa. Quello che cercheremo perciò di fare, come detto, sarà di rintracciare ‘sensazioni’ che diano vita alle fredde indicazioni narrative.
Sapere con quali occhiali il protagonista vede il mondo, come si veste, cosa legge, i suoi hobbies, etc., non sempre ci aiuta a definire il problema del protagonista ma diventano efficaci se conosciamo il perché ha fatto certe scelte formali e non altre.

Dunque qual è il fatal flaw del personagio che intendete raccontare? Lo avete individuato? Bene, ora è questo che dovrete fare: sintonizzarvi su questo suo stato d’animo e viverlo come fosse il vostro. Pensate a cosa è successo a voi quando, in un certo momento della vostra vita, avete provato lo stesso disagio o la stessa angoscia. “Infelicità senza desideri” come scrive Peter Handke. Vi siete sentiti soli e niente pareva consolarvi? Poi cosa è successo? Ripensate a quali sono stati gli snodi, i passaggi emotivi che vi hanno tirato fuori da quella situazione cronicizzata, che vi hanno portato a reagire in maniera vitale uscendo da quell’affossamento. Rabbia che chiede soddisfazione? La prima reazione necessaria. Trovate i vostri passaggi e innestateli al protagonista, senza imbellettarli con artifizi artistici. Qualcuno ha detto che la forma più alta di arte è la verità.

Un uomo che non ama, una donna che non trova la propria identità, un giovane che non vuole crescere. Ma anche un pistolero inseguito dal proprio passato, un investigatore tormentato da un errore commesso, un super-eroe ‘limitato’ dai propri poteri extra-umani.
Se per esempio volete scrivere di un uomo che ha scelto la solitudine oppure di uno che ha problemi con la sua donna, sappiate che parlate dello stesso tema attraverso due diverse esperienze. Ambedue hanno problemi con la loro parte femminile (l’Anima junghiana) e attraverso percorsi diversi arriveranno alla stessa soluzione. Il primo verrà riportato all’amore pieno e totale da una donna che si prenderà cura di lui, il secondo raggiungerà la stessa mèta ma attraverso una donna che lo metterà con le spalle al muro. Se si tratta di una donna che deve integrare l’Animus (la parte maschile) avrà grandi conflitti con il mondo esterno ma troverà un uomo che le darà quel valore che le servirà integrare (storie sull’emancipazione femminile). Ma ci sono anche donne che hanno una forte caratterizzazione maschile (fate, dark ladies) che devono riscoprire la loro parte femminile. Pure essendo donne, mancano di Anima. Oppure ci sono uomini adattati a un’Anima onnipotente che devono riscoprire la loro parte maschile per ristabilire un vitale equilibrio (storie di crescita).

Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Una volta che avrete definito il fatal flaw che volete raccontare del vostro personaggio e lo avrete inserito in un ambiente di vita che possa esaltare le sue ‘mancanze’,  avrete il suo Mondo Ordinario.

La mano ci prende quando vogliamo raccontare qualcosa di originale. La scoperta “originale” più grande che ciascuno di noi può fare è di essere un essere umano non molto dissimile dai suoi simili. L’Epopea di Gilgamesh, scritta 5000 anni fa, contiene lo stesso soggetto del film ‘Un Uomo da Marciapiede’. Due scrittori, a distanza di 5000 anni, hanno raccontato la stessa storia in forme diverse. E in questa soltanto si può rintracciare l’originalità di un’espressione artistica.






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