Quella rabbia che chiede
soddisfazione, anche nell’amore.
Questa frase mi sembra un ottimo spunto per
provare ad inquadrare il problema del protagonista nelle Storie d’Amore. Cosa
lo offusca al punto da fargli considerare accettabile una vita che non lo
soddisfa appieno ma che “insiste” a condurre?
Per questo motivo all’inizio d’un racconto si
parla di bassa consapevolezza del
protagonista. Egli non è del tutto consapevole di ciò che lo rende infelice,
non abbastanza perché possa considerarlo un problema.
E se alla suddetta frase togliamo anche nell’amore, abbiamo una Storia di
Morte.
Parlare del Mondo
Ordinario del protagonista è argomento arduo e complesso, e poco di addice
a un post (in questo caso ancor meno rispetto ai successivi snodi narrativi).
Ma se è vero che ogni storia è la storia del protagonista, non si può non
cominciare che col parlare di lui.
Le trasformazioni che il protagonista subirà nello
svolgimento del racconto sono la parte empatica
e rappresentano l’essenza, il significato di ciò che viene raccontato. Il
cosiddetto plot, cioè gli eventi
esterni, la trama che si dipana intorno a lui, altro non è che il vestito di un
corpo che lo scrittore dovrebbe conoscere nei suoi aspetti più profondi avendo
operato, come vero e propro chirurgo, giù fino ai tendini, alle ossa, al sistema
cellulare composto in ultimo dalle nostre cellule sessuali – le uniche
separate. La cellula sessuale è infatti costretta a dividersi in due parti
entrambe dimezzate nei cromosomi e bisognose di reintegrazione. Questo
meccanismo dimostra la necessità della materia vivente di creare perciò situazioni
intollerabili per scatenare reazioni vitali.
L’intollerabile separazione.
Ogni storia è perciò in sostanza il tentativo di tornare
a questa ‘riunione’ cellulare, che psicologicamente assume le forme dell’animus e dell’anima junghiani. È questo il viaggio,
e ciò lo si ottiene partendo dalla destrutturazione di ciò che siamo diventati nell’espressione
di questa riunione mancata, prendendo quindi coscienza di ciò che siamo e di ciò che cerchiamo veramente. È il
viaggio che il nostro protagonista sperimenta, è il nostro viaggio, che, purtroppo,
questa sede ci costringe ad affrontare con rapidi colpi di pennello nel
tentativo di rintracciare ‘suggestioni’ riconducibili a tale scopo.
All’inizio era il caos. Dobbiamo perciò cominciare
col mettere ordine al caos, separare il grano dalla crusca, nel modo indicato
da Jung in riferimento all’opera dell’artista chiamato, a suo dire, a smontare
la propria follia per conoscere com’è fatta, per poi ricostruirla tale e quale affinché
lo spettatore o il lettore vi possano riconoscere le loro.
Torniamo dunque al nostro protagonista. Abbiamo
detto che il suo problema costituisce essenzialmente il nostro racconto. Possiamo
genericamente accennare a qualche tipo di problema: non riesce ad amare, non
riesce a crescere, non riesce a realizzarsi, etc.. È bene conoscere su cosa vogliamo mettere le mani, e una volta che
lo abbiamo definito non dovremo più distogliere lo sguardo da lì perché ciò
costituirà il tema del racconto.
Quello che avremo scelto, il problema cioè del protagonista, rappresenterà il
suo fatal flaw, ovvero il suo danno
da aggiustare. Parleremo di questo danno per tutto il racconto, dal punto in
cui nasce al momento in cui si risolve, inserendo la vicenda nei luoghi e nelle
epoche che stabiliremo in base al nostro gusto personale.
Bisogna perciò innanzitutto conoscere il problema
del protagonista (sempre emotivo) e anche il modo in cui potrà risolverlo. È
vero, ci sono scrittori che si mettono lì e attaccano a scrivere fidando nella
propria vena creativa, ed è un bene, tuttavia credo che conoscere ‘dove si va a
parare’ non faccia male, nell’aiuto che può darci a focalizzare ciò che
raccontiamo prima che il protagonista scopra da solo ‘dove voleva andare a parare’.
L’inizio di una storia deve contenere la fine, o
perlomeno una sua prospettiva (almeno nelle intenzioni di chi scrive). Se per
esempio voglio raccontare la storia di un dongiovanni, è necessario che
all’inizio lo scrittore rappresenti (con un’immagine o una frase, detta pure da
altri) il limite di questo suo ‘carattere’, cioè il disagio di non vivere l’amore
sebbene circondato da donne. È un problema di fiducia il suo? In chi? In sé
stesso o negli altri? O in tutt’e due? Ha paura di cosa? Cosa vorrebbe?
Se parlo d’un avaro, dovrò forse comprendere che
esso vede nell’accumulo di denaro un sostituto dell’amore che gli manca. Ha il
terrore che qualcuno gli porti via i soldi? Preferisce ‘tenerlo tutto per sé’?
A discapito di cosa? Questo come lo fa vivere? Cosa sogna un avaro?
Queste ed altre domande servono per ‘illuminare’
l’altra faccia del protagonista, quella che per tutto il racconto terremo oscura (l’Ombra Junghiana che impatterà
nella Prova Suprema e per la quale morirà nel Punto di Morte). L’altra faccia
di cui, fino alla fine, non parleremo mai, che mostreremo al protagonista (o al
lettore o allo spettatore) soltanto nelle forme in cui lui la teme.
La sintesi delle risposte a queste domande preliminari
sul protagonita può essere rappresentata appunto da una sola immagine o in una
sola frase all’inizio del film. Anzi, più si riesce a trovare una sintesi, più
significa che si è centrato il fatal flaw.
Domande di partenza: quale problema ha il
protagonista? Come lo esprime? Di cosa ha paura? Cosa desidera in realtà? Come
lo realizzarà?
‘Problema’ che è il suo fatal flaw, sempre costitutito, in ogni film e in ogni romanzo,
dall’incapacità del protagonista di espriemere la propria parte emotiva. Cito
due esempi cinematografici a mio avviso tra i più folgoranti e illuminanti: Little Miss Sunshine in cui, in primo
piano, Richard Hoover (Greg Kinnear) parla alla platea dei dieci scalini per
raggiungere il successo, ma un attimo dopo scopriamo che la platea è
praticamente vuota. Problemi di comunicazione? Già, e cosa produce problemi di
cominicazione? La scarsa stima di sé stessi, la mancanza di autostima? E perché
si ha scarsa autostima? Forse perché non siamo stati abbastanza valutati
nell’infanzia? Cioè non ci è stato dato quel necessario apporto di affetto per
vivere senza doversi poi sentire sempre in dovere di dimostrare quanto si è
bravi ed ‘esperti’? Gira che ti rigira, sempre lì andiamo a finire: quello che
abbiamo ricevuto e quello che siamo in grado di dare.
L’altro esempio, più ‘antico’, vede Thomas Edward
Lawrence (Peter O’Toole) in Lawrence
d’Arabia. Proprio in apertura, egli dà prova di resistenza ai commilitoni
facendo bruciare un cerino sotto il palmo della mano. Non sente dolore. Già, e
perché in genere non si prova dolore? Neanche di fronte a traumi violenti? Forse
ci auto-anestetizziamo? E perché abbiamo questa ‘necessità’? Per caso nell’infanzia
abbiamo sperimentato un dolore simile e ci siamo corazzati al punto da non voler
provare più niente? E di fare persino di questo distacco una virtù? (Di Thomas
E. Lawrence scopriamo infatti che è figlio non riconosciuto di un ‘lord’
inglese, cioè di un uomo che non lo ha mai voluto, ovvero di un uomo in cui non
si è identintificato e che perciò ‘sfida’).
Un fatal flaw
verbalizzato è meno efficace. Uno molto divertente c’è in "What Women Want” dove
Lola (Marisa Tomei) alla cassa del bar gela il caracollante Nick Marshall (Mel
Gibson) con un: “Nick, che devo fare per convincerti? Io non sono il tuo tipo,
dammi retta, lo so.” Lo spettatore percepisce che Nick è uno che se la racconta
in fatto di ‘saperci fare con l’amore’, è che è l’unico a non saperlo.
Domande. Domande che servono per giungere al
“senso”, all’anima del nostro racconto, che abilmente cripteremo prima del
disvelamento finale. Di regola si dice che se si vuol parlare d’amore, non
bisogna parlare d’amore. Nel memorabile romanzo Le Relazioni Pericolose di de Laclos la parola ‘amore’ non viene
mai espressa dai protagonisti, mai nel senso che questa parola generalmente intende.
Domande. Porsi e far porre domande al
protagonista. Il lavoro dello scrittore credo consista essenzialmente nel porsi
domande, non nel dare risposte. Le domande sono molti più interessanti, e se
ben poste ‘seducono’ più delle risposte.
Nel caso delle Storie di Morte (tutte le storie di
genere) il fatal flaw del
protagonista è applicato alla sua necessità di sopravvivere ad un evento
minaccioso. Qui la lotta è della Vita sulla Morte, mentre nel caso delle Storie
d’Amore si tratta della riunione di animus
e anima junghiani, la scoperta cioè di
quel qualcosa che manca e della sua successiva integrazione.
Il fatal flaw
di ogni protagonista di Storie di Morte è se vogliamo molto più arcaico di
quello delle Storie d’Amore in quanto la sua priorità è sopravvivere ancor prima
di avere la possibilità ad amare. Il nostro protagonista, nelle Storie di
Morte, sarà abbastanza forte e coraggioso da affrontare ciò che lo affossa, rappresentato,
nella sua Ombra, dall’antagonista? Cos’è che in realtà lo invade al punto da
doversi produrre infine in una forte reazione vitale? Un evento traumatico del
passato? Oppure quest’invasione è semplicemente rappresentata da dei classici
alieni? Oppure si tratta d’un ricatto di cui è vittima?
Ma, come si evince, sempre di ‘qualcosa che manca’
parliamo. Nel trovare la forza di vincere la morte, in questo genere di storie,
in quella di riuscire ad amare nell’altra. Che pure questi due aspetti, se
vogliamo, sono espressioni di un unico aspetto. Senza amore si muore. Oppure,
si muore se non si è abbastanza forti da amarsi. Ma, per ragioni narrative, è
necessario porre anche qui una ‘separazione di genere’. Storie d’Amore e Storie
di Morte.
Come molto spesso succede dopo aver seguito corsi
di sceneggiatura o di scrittura, se ne esce con un block notes pieno di appunti
e con una bella confusione in testa. Quello che cercheremo perciò di fare, come
detto, sarà di rintracciare ‘sensazioni’ che diano vita alle fredde indicazioni
narrative.
Sapere con quali occhiali il protagonista vede il
mondo, come si veste, cosa legge, i suoi hobbies, etc., non sempre ci aiuta a
definire il problema del protagonista ma diventano efficaci se conosciamo il
perché ha fatto certe scelte formali e non altre.
Dunque qual è il fatal flaw del personagio che intendete raccontare? Lo avete
individuato? Bene, ora è questo che dovrete fare: sintonizzarvi su questo suo stato
d’animo e viverlo come fosse il vostro. Pensate a cosa è successo a voi quando,
in un certo momento della vostra vita, avete provato lo stesso disagio o la
stessa angoscia. “Infelicità senza desideri” come scrive Peter Handke. Vi siete
sentiti soli e niente pareva consolarvi? Poi cosa è successo? Ripensate a quali
sono stati gli snodi, i passaggi emotivi che vi hanno tirato fuori da quella
situazione cronicizzata, che vi hanno portato a reagire in maniera vitale
uscendo da quell’affossamento. Rabbia che
chiede soddisfazione? La prima reazione necessaria. Trovate i vostri
passaggi e innestateli al protagonista, senza imbellettarli con artifizi
artistici. Qualcuno ha detto che la forma più alta di arte è la verità.
Un uomo che non ama, una donna che non trova la
propria identità, un giovane che non vuole crescere. Ma anche un pistolero
inseguito dal proprio passato, un investigatore tormentato da un errore
commesso, un super-eroe ‘limitato’ dai propri poteri extra-umani.
Se per esempio volete scrivere di un uomo che ha
scelto la solitudine oppure di uno che ha problemi con la sua donna, sappiate
che parlate dello stesso tema
attraverso due diverse esperienze. Ambedue hanno problemi con la loro parte
femminile (l’Anima junghiana) e
attraverso percorsi diversi arriveranno alla stessa soluzione. Il primo verrà riportato all’amore pieno e totale da una
donna che si prenderà cura di lui, il secondo raggiungerà la stessa mèta ma
attraverso una donna che lo metterà con le spalle al muro. Se si tratta di una
donna che deve integrare l’Animus (la
parte maschile) avrà grandi conflitti con il mondo esterno ma troverà un uomo
che le darà quel valore che le servirà integrare (storie sull’emancipazione
femminile). Ma ci sono anche donne che hanno una forte caratterizzazione maschile
(fate, dark ladies) che devono riscoprire la loro parte femminile. Pure essendo
donne, mancano di Anima. Oppure ci
sono uomini adattati a un’Anima onnipotente
che devono riscoprire la loro parte maschile per ristabilire un vitale equilibrio
(storie di crescita).
Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Una volta che
avrete definito il fatal flaw che
volete raccontare del vostro personaggio e lo avrete inserito in un ambiente di
vita che possa esaltare le sue ‘mancanze’, avrete il suo Mondo Ordinario.
La mano ci prende quando vogliamo raccontare
qualcosa di originale. La scoperta “originale”
più grande che ciascuno di noi può fare è di essere un essere umano non molto
dissimile dai suoi simili. L’Epopea di Gilgamesh, scritta 5000 anni fa,
contiene lo stesso soggetto del film ‘Un Uomo da Marciapiede’. Due scrittori, a
distanza di 5000 anni, hanno raccontato la stessa storia in forme diverse. E in
questa soltanto si può rintracciare l’originalità di un’espressione artistica.
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